Il 18 aprile 2022 Valerio Evangelisti ha lasciato questo pianeta. Aveva 69 anni.
Penna vulcanica e sopraffina della fanta-narrativa italica (è una sua creatura l’inquisitore Nicolas Eymerich, al centro di un ciclo di felici romanzi), nel 2013 ebbe modo di narrare se stesso alle prese con «il lato notturno della vita», direbbe la scrittrice Susan Sontag: il cancro. Un linfoma non Hodgkin, nella fattispecie.
Per la cronaca, i linfomi non Hodgkin costituiscono una folta, eterogenea famiglia di patologie onco-ematologiche (a basso, intermedio e ad alto grado di malignità) che possono colpire qualsiasi età e interessare il sistema linfonodale superficiale e/o profondo, il distretto della milza ma anche il tessuto linfatico dovunque diffuso nell'organismo (con localizzazioni cutanee, gastriche, intestinali, al mediastino e anche a carico del sistema nervoso centrale).
Valerio scoprì che l’invasore si era silenziosamente accasato nel suo organismo grazie al fiuto dell’odontoiatra, che durante una seduta di routine scorse un lieve e sospetto gonfiore in una gengiva.
Quel riscontro casuale covava purtroppo il verdetto diagnostico di cui sopra. E da lì fu per il compianto Valerio l’inizio di un sofferto slalom, contrassegnato da raffiche di esami e sedute di chemio. Il suo formidabile antidoto? Pensare ad altro.
«La possibilità di accedere mentalmente a realtà diverse, o addirittura di crearne, è la facoltà più grande che possegga l’essere umano».
Con queste parole, così vere e toccanti, Valerio conclude il diario, lucido, coinvolgente e pure ironico, che ha voluto dedicare al racconto della sua malattia: il libro Day Hospital, pubblicato da Giunti Editore.
Già: raccontare la malattia. È cosa buona e giusta.
Di fronte al cancro, non si tratta semplicemente di… “aggiustare” un organismo che ha subito un danno. Devono sempre sussistere due livelli di cura: l’uno strettamente “tecnico”, medicale, e l’altro interiore, emotivo, impalpabile ma di enorme concretezza, nel quale il cancro non può essere solo considerato un nemico da distruggere, ma un’entità nuova, inaspettata con cui dialogare.
Molti malati hanno messo in evidenza che comunicare sul cancro fa bene.
Fondata dalla professoressa Rita Charon, della Columbia University di New York, la Medicina narrativa nasce per sollecitare una più spiccata e “sentita” centralità del paziente nei percorsi di assistenza e cura, per riconoscergli finalmente il ruolo di attore protagonista nel film della sua vita, per affermarne il sacrosanto diritto di sapere tutto della patologia di cui soffre (e delle scelte terapeutiche a disposizione), per ribadire un’autonomia decisionale nel più o meno lungo cammino verso la guarigione.
In più punti del suo resoconto, Valerio Evangelisti denuncia le falle della comunicazione tra i camici bianchi e l'assistito. Dinanzi a certi disagi indotti dagli strascichi fisici della chemio (come un’indomabile irrequietezza dei piedi, agitati nottetempo da formicolii e trafitture), lo scrittore bolognese riflette con sbigottita amarezza: «Nessuno mi aveva preavvisato».
Le storie dei malati, come quella di Valerio, esemplificano straordinariamente il cuore, il messaggio pulsante di questo speciale storytelling: c’è un mondo là fuori, dietro il freddo dato di una conta dei globuli rossi, al di là di una “lastra” radiografica, tra le linee seghettate di un elettrocardiogramma, oltre quel centimetro quadrato di pelle bucata da un ago… Un mondo chiamato Persona. E penso, infine, al fenomeno Claire Wineland. Se n’è andata a 21 anni, il 2 settembre del 2018. È stata una trascinante influencer che ha raccontato senza mezzi termini sui social la personale lotta contro la fibrosi cistica. Aveva aperto canali YouTube, Instagram e Twitter per abbattere le imbarazzanti barriere che la gente tende a costruire attorno a chi sperimenta una patologia. E lei ci riusciva nel modo che le risultava più semplice e congeniale: parlando di se stessa.
Ha scritto: «Ho dovuto lottare più contro i ragazzi, gli antidepressivi, la famiglia e la carriera di quanto abbia fatto verso la malattia».
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