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Laura Marziali: la forza luminosa di chi ha attraversato il buio

  • Immagine del redattore: Edoardo Rosati
    Edoardo Rosati
  • 8 apr
  • Tempo di lettura: 5 min

C’è un prima, e c’è un dopo.

E in mezzo: il cancro.

Un sisma che squarcia la vita e la riscrive con un altro inchiostro. Più denso. Ma non necessariamente più nero. Chi ha avuto a che fare con una diagnosi oncologica lo sa: non si esce da quell’esperienza come si entra. Si finisce in un frullatore – fatto di angoscia, attese, aghi e parole che nessuno vorrebbe ascoltare – e ci si ritrova con una pelle nuova, una coscienza diversa. Spesso più fragile, ma maggiormente profonda.


Laura Marziali aveva 28 anni quando la sua vita è cambiata per sempre. Troppo presto, troppo assurdo, troppo tutto. Non era solo giovane: era anche brillante, un fiume in piena di progetti, una fantasia creativa, una voce che vibrava nei teatri. Poi, di colpo, la diagnosi: tumore alla cervice uterina. Un fulmine, come accade sempre in questi casi, che ha spezzato il cielo senza preavviso. E da lì, una discesa a spirale nelle stanze sconosciute dell’oncologia, con la routine scandita dalle terapie, dagli interventi, dai controlli, dalle attese. Ma anche da pensieri nuovi. Scritti, sussurrati, poi declamati a gran voce. Perché Laura non ha lasciato che il cancro diventasse soltanto una (sofferta) parentesi, una ferita da gestire e, prima o poi, da archiviare. Ha scelto invece di farne una sorgente. Una fucina di connessioni. Di impegno civile. Ha deciso di non dimenticare. E, soprattutto, di non permettere che dimenticassimo noi.


Nelle pagine del suo diario, scritte durante il lungo periodo delle cure, Laura annotava emozioni che oggi hanno la potenza dei testi fondativi. «Sono stata tagliata a pezzetti, e ora non so più dove sia il loro posto», scriveva nel dicembre del 2019. Eppure, proprio da quei cocci, ha cominciato a ricomporre qualcosa. Non una semplice ricostruzione personale, sia chiaro, ma un movimento collettivo.

Quella che poteva restare una vicenda individuale – privata, silenziosa – è diventata un’esperienza condivisa, che oggi si chiama C’è Tempo OdV. Un’organizzazione di volontariato, certo. Ma soprattutto uno spazio dove le storie si ascoltano, le mani si stringono, le paure si decantano. Un ponte, come ama definirlo lei stessa, tra il mondo dei pazienti e quello dei medici, delle famiglie, delle istituzioni.

Perché, come racconta con lucidità e una forza quasi lirica, il cancro non finisce con la parola «guarigione». C’è un secondo cruciale step, quello del “poi”, altrettanto delicato, e troppo spesso invisibile. Una sorta di terra di mezzo, in cui si è sopravvissuti ma non ancora completamente, come dire,... ritrovati.


Il ritorno alla vita non è mai automatico. È una risalita lenta, a tratti sfiancante.

È in quel “dopo” che Laura ha compreso quanto sia fondamentale non lasciare nessuno solo. Già: chi ha fronteggiato la burrasca ha bisogno di strumenti “altri” per tornare a vivere davvero. Non bastano le dimissioni, non basta la scrupolosa aderenza ai trattamenti, non bastano le raccomandazioni e i saluti affettuosi dei camici bianchi. Serve una società che sappia abbracciare il ritorno alla normalità come un nuovo inizio, una rinascita all’indomani della tempesta. 


In tal senso, l’attivismo oncologico di Laura Marziali è rivoluzionario. È capace di tenere insieme due dimensioni all’apparenza distanti: quello della scienza e quello dell’esperienza; quello dei protocolli e quello delle emozioni; quello delle statistiche e quello delle cicatrici. Laura riesce a intrecciare queste istanze con naturale fermezza, forte di un coraggio maturato nel vissuto, in ogni parola che oggi pronuncia con autentica consapevolezza. È una survivor, sì, ma soprattutto una “militante” trascinante, un volto simbolo di una nuova narrazione oncologica che si muove oltre le corsie ospedaliere, dentro la società, nei cuori, nella politica.


Il suo impegno ha raggiunto uno dei momenti più alti con la battaglia – stravinta! – per il diritto all’oblio oncologico. Una legge storica, entrata in vigore nel gennaio del 2024, che garantisce ai guariti dal cancro la possibilità di non essere discriminati in ambito lavorativo, assicurativo, finanziario. Un diritto tanto basilare quanto, fino a poco tempo fa, impensabile. Tutto è cominciato da un episodio sperimentato in prima persona, quasi banale: il rifiuto di un finanziamento per acquistare un’auto. «Meglio intestarlo a tua madre», le avevano detto. Perché il suo passato clinico la rendeva, agli occhi della burocrazia, un soggetto a rischio.

Da quella ferita è nata una lotta civile. Una mobilitazione, una petizione, una campagna nazionale. E alla fine, una legge. Ma Laura lo dice chiaramente: non basta. È solo l’inizio. Perché la discriminazione oncologica non è solo normativa, è culturale. È lo sguardo di chi ti giudica ancora fragile. È la paura di dire che hai avuto il cancro in un colloquio di lavoro. È l’idea che non sarai mai più “come prima”.


Ecco, allora, che Laura è qualcosa di più di una portavoce. È, consentitemi l’espressione, un architrave. Il simbolo di una generazione che non vuole più subire in silenzio. È la testimonianza vivente che guarire non è solo una questione clinica, ma una ricostruzione identitaria, sociale, spirituale. È un invito a rinverdire il nostro modo di intendere la fragilità e la vitalità, la malattia e la rifioritura.


Il suo impegno continua, ogni giorno, tra una partecipazione a un convegno e un abbraccio donato a chi ha appena ricevuto una diagnosi. Perché guarire, lo ripete spesso, non è la fine del percorso, ma un punto di partenza. E per attraversare quel “dopo” serve sostegno, cognizione, rete. Serve che nessuno venga isolato.


Nel raccontarsi, Laura non risparmia dettagli, emozioni, immagini che ti restano nella testa. Descrive gli ospedali come «aeroporti dell’anima» attraversati da una girandola di rumori: il fruscio secco delle siringhe che si scartano, il bip regolare e ossessivo delle macchine durante le infusioni, le parole tecniche – una volta astratte, poi sempre più familiari – che s’intrufolano nel vocabolario quotidiano come formule magiche per orientarsi nel caos. È in questi suoni, all’apparenza impersonali, che si deposita la memoria sensoriale più intensa di chi ha toccato la malattia: colonne sonore del coraggio, che a distanza di anni possono addirittura generare nostalgia, come se il dolore stesso avesse lì trovato un suo confortante antidoto. E poi c’è il ritorno a casa, che non è mai davvero un rientro: è, dicevamo, una ripartenza. Con un corpo che appare cambiato, estraneo. E con una paura diversa, meno visibile ma persistente: quella di dover affrontare il mondo in solitudine.


Eppure, in quelle membra segnate, oggi Laura riconosce una mappa verso il mare. Una ferita che pulsa di vita fresca. Come nell’antica arte giapponese del kintsugi, dove le fratture di un vaso rotto non vengono occultate, ma ricomposte e sottolineate con preziose venature d’oro. È in quelle crepe che si deposita la luce. È lì che scaturisce una nuova forma di interezza: la “decorazione” delle lesioni rende ogni storia unica e pregiata. E trasforma l’esperienza della patologia in un pezzo inestimabile di resilienza e fiducia.


Nelle parole di Laura palpita una verità profonda: la rinascita è possibile, ma solo grazie a una mano tesa. E lei, quella mano, la offre ogni giorno, a chi è ancora prigioniero della paura, a chi si sente smarrito, a chi cerca un significato nel vuoto del “domani”.

La sua voce è diventata un riferimento.

Non perché urla, ma perché risuona.

Non perché è forte, ma perché è vera.

In un’Italia ancora soffocata dalle nebbie dei pregiudizi, Laura Marziali è un faro. Il cancro, sì, resta un punto interrogativo. Ma, per merito di persone come lei, oggi può diventare un sentiero condiviso. E una storia che è doveroso ─ anzi, sacrosanto ─ raccontare. Passo dopo passo. Insieme.


 
 
 

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