Non finirò mai di ringraziare il Signor H.
Incontrarlo, anche soltanto sui libri, e averne recepito e custodito l’insegnamento prezioso mi hanno consentito di disinnescare la tragedia. E di raccontare oggi il dramma sfiorato senza più avvertire le vene e i polsi che tremano al solo ricordo (in realtà non è affatto vero: la pancia e la testa del genitore vanno ogni volta in subbuglio, ma tant’è…).
Cinque anni. O giù di lì. L’età di mio figlio all’epoca del fattaccio.
Pomeriggio al cinema, in un centro commerciale. Famiglia e parenti seduti a un tavolo di uno dei mille bar. Si chiacchiera in serenità, mentre il pargolo, col suo cuginetto coetaneo, si gusta tra le risate un variopinto gelato.
Di colpo il sottoscritto si sente strattonare il braccio.
Il figlio mi fissa.
Occhi spiritati.
Gote pallide.
Naso affilato.
Una manina nervosa che si gratta la gola e l’altra tremante, col cono nel pugno, indifferente ai rivoli appiccicosi che gli stanno imbrattando le dita.
Un velo bluastro colora le sue labbra. Ma non dipende dai cromatismi del gelato.
Apre e chiude la bocca affannosamente.
Un pezzo di cibo gli sta ostruendo il flusso d’aria. E anziché imboccare l’esofago, s'è incastrato nelle vie respiratorie.
Il guaio è che il provvidenziale riflesso della tosse, di cui Madre Natura, nella sua infinita saggezza, ci ha dotato, pare del tutto abolito. Il segno che l’ostruzione non è parziale.
Dalla sua bocca nessun suono.
Nessun agognato colpo di tosse.
Un drappo funereo mi cala sugli occhi, quando il sentore del disastro imminente comincia a sgomitare nella testa.
Urge reagire. Sotto lo sguardo muto e livido di paura dei famigliari, imprimo qualche energico colpo con la parte bassa del palmo della mano fra le sue scapole, con lui piegato in avanti.
Ma, ahimè, nulla, maledettamente nulla succede.
Scatto in piedi come un coltello a serramanico e d’istinto afferro il corpo di mio figlio per le caviglie, nella speranza che la forza di gravità faccia il suo mestiere.
Ma pare proprio che quel “qualcosa” mozzafiato se ne infischi bellamente delle forze della fisica.
Tutt’attorno, scene di un film buñueliano. Gente che osserva la sequenza continuando a sorseggiare al bancone nell’attesa di assistere al gran finale. Contagiati tutti da una venefica voglia di “morte in diretta” che li rende incredibilmente incapaci di muovere un solo dito. Di prestare uno straccio di aiuto.
Ma non c’è il tempo per perdersi nelle riflessioni sulla umana socio-patologia.
Un bambino stava soffocando. E quel bambino era mio figlio.
Poi, tra i flutti di adrenalina, le bordate di angoscia a briglia sciolta e la voglia tracimante di sciogliersi nel pianto disperato. spunta l’immensa lezione del Signor H.
Il Signor H. è il medico statunitense Henry Heimlich (1920-2016). E la sua immortale notorietà è legata a una manovra da lui ideata per contrastare il rischio di soffocare in seguito a un’ostruzione delle vie aeree.
Se qualcuno avesse avuto sottomano un elettrocardiografo, avrebbe registrato nel mio petto le onde di un sisma.
Riposiziono in piedi quel corpicino, in preda a un blocco della meccanica respiratoria, e mi attrezzo per l’ultima chance da giocare.
Mi piazzo dietro di lui. Dita della sinistra chiuse a pugno, raccolto sotto lo sterno, alla “bocca dello stomaco”, la destra che copre saldamente l’altra mano e che comincia a spingerla verso l’alto e l’interno, così da pressare diaframma e polmoni.
Urti pneumatici, rapidi ed energici.
Praticamente, colpi di tosse artificiale.
Al terzo movimento, la trachea spara in aria il corpo estraneo.
Un frammento vistoso di cialda.
Un respiro fragoroso e poi il pianto liberatorio del bambino.
L’ombra del cataclisma si dilegua.
Le gambe di noi adulti sono pagliuzze che non reggono. E ci si affloscia sulle sedie con dieci anni di vita in meno.
Ma con una consapevolezza: che un signore mai incontrato prima in vita ci ha salvato e cambiato la vita, grazie a un gesto geniale e potente. Il cui insegnamento, sì, andrebbe inculcato già sui banchi di scuola.
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