Un aforisma di Goethe recita così:
«La magia è credere in noi stessi. Se riusciamo a farlo, allora possiamo far accadere qualsiasi cosa».
Chissà... Sembrerebbe che questo succoso pensiero abbia animato la nuova iniziativa del Progetto Giovani, sotto il tetto dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano: un percorso dedicato all’illusionismo. All’arte della magia.
Il Progetto Giovani nasce nell’ambito della Pediatria Oncologica dell’INT, grazie al vitale supporto dell’Associazione Bianca Garavaglia. E, oltre ad assicurare eccellenza delle cure e mirati protocolli clinici, si dedica alla vita degli adolescenti malati con spazi dedicati e iniziative che esaltano l’inventiva di questi pazienti così speciali.
È un “laboratorio dell’anima” unico al mondo.
L’arte diventa cammino di cura (attraverso fumetti, canzoni e mostre fotografiche). Porta la bellezza in ospedale, regala ai ragazzi strumenti originali per raccontarsi, offre, con percorsi creativi che durano diversi mesi, un senso di futuro e continuità con la vita. E fornisce il carburante giusto e prezioso per ripartire dopo la diagnosi di cancro e le terapie impegnative.
La magia e la prestidigitazione, si diceva, sono state la nuova esperienza di questi giovani, con lezioni periodiche orchestrate da scoppiettanti professionisti del trucco, come il Mago Tittix e Raul Cremona. Ma si badi bene: ogni manifestazione del Progetto Giovani non è una mera vetrina mediatica, ma una modalità diversa per narrare sé stessi e il personale viaggio in questa vita inattesa, col bagaglio zeppo di turbolente emozioni al seguito.
In quella strepitosa perla filmica intitolata The Prestige, firmata da Christopher Nolan, il sempre magnifico Michael Caine spiega che ogni numero di magia è composto da tre parti (o atti). La prima si chiama la promessa: l’illusionista mostra qualcosa di ordinario, come un mazzo di carte, o la gabbia con un canarino all’interno o un pezzo di spago. La seconda fase è la svolta: il mago a questo punto trasforma quel qualcosa da ordinario in straordinario e così… puff!... fa sparire l’oggetto che ha esibito in precedenza. Ma non è finita: l’“Ooohhh!” di meraviglia e l’applauso dell’affezionato pubblico ancora non scattano. Perché bisogna che quel qualcosa ricompaia, e magari in maniera davvero spiazzante. È il terzo step: il prestigio, il momento rivelatore.
E allora vi invito a riconsiderare queste tre parole: la promessa, la svolta, il prestigio… E provate adesso a collocarle in senso metaforico nella vita di questi ragazzi, nel loro tragitto esistenziale. Ecco che, “magicamente”, assumono spessori, pesi, valenze, suggestioni differenti. Simbolicamente acquisiscono consistenze di immensa portata emotiva, se si pensa alla cruda realtà della malattia, il cui decorso – psicofisico ed emozionale – è punteggiato proprio di promesse, svolte, attese e momenti rivelatori…
Ecco: sta tutto qui il cuore pulsante del recente, coinvolgente lavoro ideato negli ambienti del Progetto Giovani. Sì, è così: per questi ragazzi urgono trattamenti eccellenti ma anche “balsami” per lo spirito, come la possibilità di affrancarsi dai pensieri cattivi ricorrendo a un tocco di terapeutica fantasia.
«Ogni giorno i nostri “magici” pazienti ci dicono che hanno bisogno di medici preparati, di cui possano fidarsi, però rimarcano pure una necessità tracimante: quella di ricevere comprensione, condivisione, complicità, tempi di ascolto, protezione». Le parole del dottor Andrea Ferrari, il vulcanico timoniere del Progetto Giovani, arrivano dritte alla pancia.
«A un certo punto il protocollo clinico non basta. Ci sono aspetti che non possono e non devono essere sottaciuti, rimossi, trascurati: stringere una mano, isolarsi nel silenzio, cercare la leggerezza, affrontare la pesantezza, piangere e arrabbiarsi se serve, sentirsi liberi di proferire piccole bugie e grandi verità, non cedere quando vorresti, credere nel potere dei sorrisi, sbagliare, riprovare, essere prudenti e, all’opposto, impulsivi… Questi giovani, nella gestione della malattia e delle cure, devono restare veri. E io li ringrazio ogni volta di cuore, questi miei ragazzi: mi hanno concesso il privilegio di farmi crescere, camminando al loro fianco nel momento più difficile della loro vita».
Sono avvezzo a trafficare con le parole, ma per descrivere il pensiero di questi adolescenti malati di cancro assai difficilmente potrei ideare frasi migliori di quelle che gli stessi ragazzi sciorinano con disarmante schiettezza.
Ecco, per esempio, la testimonianza matura e toccante di Stefano.
«Quando si parla di giovani pazienti oncologici, viene spesso utilizzata la metafora del soldato, dell’eroe che combatte una guerra contro la malattia. È una visione che a me personalmente non piace. Credo voglia trasmettere l’idea che chi affronta un tumore a questa età sfodera in genere una grande forza e un grande coraggio – cosa spesso vera –, però manca qualcosa di essenziale a questa immagine. Per spiegarmi: se proprio vogliamo restare nella simbologia della guerra, noi adolescenti con tumore non saremmo soldati o eroi bensì semplici cittadini, i civili, come si dice, che devono sopravvivere al conflitto esploso all’improvviso nella loro abitazione. Quella di combattere, infatti, non è una nostra scelta: non ci siamo mica offerti volontari, non siamo militari addestrati, nessuno ci ha insegnato a guerreggiare. Semplicemente siamo qui, a casa nostra. Arriva la guerra, e non possiamo tirarci indietro. Se riusciremo a sopravvivere, non otterremo medaglie, bensì ci rimarranno cicatrici e paure. Qui non c’è alcun atto di eroismo. Cerchiamo soltanto di tenere duro e resistere. Ma se guariamo, ci restano un tetto e un paese distrutti, una vita diversa da quella di prima. Il mondo attorno a noi è cambiato, è andato avanti e noi facciamo fatica a riconoscerlo. Il soldato, se le cose vanno per il meglio, torna in patria, dopo la fine della guerra. Noi spesso la patria non la troviamo più. È stata distrutta e dobbiamo ricostruirla. E ci serve aiuto».
Stefano e gli altri come lui sanno che c’è soltanto un ordine di scuderia da rispettare: non mollare. Mai. Perché, come dice un antico proverbio Maori, bisogna sempre girare il viso verso il sole affinché le ombre cadano dietro di te.
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