Questa volta la voce narrante non sarà quella del sottoscritto.
Ho invitato a parlare un grande amico, un giornalista di razza: Paolo Barnard.
La ragione? Semplice: 15 anni fa e passa, la vulcanica mente di Paolo partorì un'idea straordinariamente rivoluzionaria: creare una Commissione di grandi clinici malati, che quindi hanno sperimentato la sofferenza e la paura, per riedificare la Sanità nell'ottica di una superiore empatia, più efficientemente calata nel complicato vissuto di un paziente.
Sembrava un progetto folle, inarrivabile, eppure quella realtà venne fondata e approdò al ministero della Salute di Livia Turco.
Fu un precedente clamoroso. Unico al mondo. E vogliamo allora rievocarlo attraverso le coinvolgenti parole di Paolo. Affinché, chissà, un domani questo progetto così lungimirante possa tornare a pulsare e a sensibilizzare la macchina della Sanità nostrana.
C’è un motivo incontestabile per cui il medico non potrà mai davvero capire l’ammalato, se per medico vogliamo ancora intendere chi pratica l’olismo con e per il paziente, e non chi è dedito a trattare agglomerati di cellule umane nella super specializzazione.
Quel motivo è che la malattia grave, soprattutto quella improvvisa, infligge all’individuo la stessa esperienza di chi è vittima di un sequestro di persona.
Immaginatelo, un sequestro.
Nel mezzo di una consuetudine di vita fatta di infiniti rituali quotidiani, fra relazioni affettive consolidate e in ambienti conosciuti dove regna una rassicurante certezza spaziale e temporale, di colpo un individuo viene sopraffatto, pestato, bendato e trascinato dai sequestratori in un luogo alieno. Dove tutto è ansiogeno, dove persino le mura di una stanza e qualsiasi oggetto presente sono ostili, odiosi, e il grido attanagliante dentro di sé è «No! No! Fatemi tornare a casa, per pietà, voglio svegliarmi da 'sto incubo orrendo! Qualcuno mi liberi!». Ma i sequestratori sono fuori dalla porta, sono padroni.
Un infarto acuto e la corsa in ambulanza al Pronto Soccorso; una devastante ischemia cerebrale che spegne in una frazione di secondo gli interruttori della parola, o del controllo degli arti, o della vista; un ricovero nelle terrificanti terapie intensive per COVID, col torace in debito d’ossigeno, così come un lungo ricovero dopo un intervento di chirurgia maggiore per un cancro, oppure per devastanti cicli di chemioterapia; o anche un’esistenza mutilata, condotta a domicilio dopo una diagnosi tremenda...
Tutto questo e tanti altri nefasti casi di afflizioni gravi equivalgono esattamente a un sequestro di persona.
La malattia ti ha fatto brutalmente sparire dalle consuetudini che davi per scontate, storpiando dagli affetti decennali che adesso sono limitati a tristissimi minuti in un luogo odioso, o a una vita a domicilio del tutto tronca, e da qui in poi è lei che detta le regole. Tu vieni strappato via da ciò che sei sempre stato. Lei ti ha rapito ed è di fatto padrona.
Questo mi apparve chiaro nella mente una notte d’inverno del 2005, mentre ero al pc a fare non ricordo che. M’immaginai in una stanza d’ospedale col mio pigiama da deportato sanitario, ed ecco i medici intorno, disinvolti: percorrono i corridoi col camice aperto che svolazza, liberi, al contrario di me. E stasera loro vanno a casa in famiglia, io no.
Parlano ai colleghi di cartelle cliniche ma anche di vita: «Mi hanno dato i biglietti per il teatro, mi sa che ci vado...», «Mio figlio gioca alle sette e mezza, non posso venire da Carlo, ma risentiamoci…». Sono i suoni della vita quotidiana che anch’io avevo fino a pochi istanti prima, ma ora non ho più. Anzi, peggio: io sono il paziente, un membro di quella specie umana che i medici curano mentre, però, stanno ben separati da una parte della barricata, i pazienti dall’altra, e non c’è storia. Li divide il cosmo, perché adesso i pazienti sono detenuti di proprietà della malattia grave, i medici sono ancora liberi.
Mi si creda: il salto o meglio il baratro che divide il medico dall’ammalato è quantistico.
Non esistono ponti possibili che permettano ai sanitari di capire davvero dove si trova chi si ammala così tragicamente e cosa patisce.
A meno che…
Fu qui che mi si accese una luce, perché pensai:
«E se la Medicina fosse ridisegnata dai grandi clinici che si sono ammalati gravemente?».
È un binomio prodigioso.
È la coniugazione perfetta fra scienza e sofferenza.
Il normale individuo che s’ammala in modo grave conosce ogni molecola della tribolazione da patologia, ma non sa nulla delle molecole che la causano. Chi cura ed è sano conosce tutto delle seconde, cioè la scienza, ma in realtà non conosce davvero nel profondo le prime, cioè la sofferenza del paziente.
Il grande clinico gravemente ammalato è l’unico che ne saprebbe fare una sintesi perfetta, pensai. E allora è ovvio che sono loro, e solo loro, che devono dettare le fondamentali linee guida di come finalmente creare una Sanità a misura di umani.
I medici sani eseguiranno, ma ne saranno comunque migliorati, e tutto questo senza rinunciare alla super specializzazione scientifica che è di certo una componente irrinunciabile.
Mi attaccai al telefono.
Ma come lo trovi un grande clinico ammalato grave?
Le mie prime chiamate a medici ospedalieri, su vaghe indicazioni ricevute, furono accolte da shock e spesso indignazione, come dire: «Eccolo il giornalista guardone che vuole ficcare il naso nel doloroso privato d’illustri colleghi… Si vergogni, tv spazzatura!».
Poi un’amica oncologa mi diede il primo aggancio diretto. Lui era il gigante dell’oncologia italiana, il dottor Gianni Bonadonna, dell’Istituto dei Tumori di Milano, stroncato da un ictus infernale pochi anni prima e «ridotto a un rudere umano in meno di un minuto» (sue parole), cioè: dalle grandi Lectures nei più prestigiosi atenei americani e italiani a una carrozzina su cui viveva semi afasico e torturato da dolori neuropatici intrattabili.
Bonadonna comprese al volo il valore di questa idea e mi spalancò le porte.
Gli altri nomi arrivarono di conseguenza: il professor Francesco Sartori, un leader europeo della chirurgia toracica di Padova, vittima di un melanoma tri-recidivo; il professor Sandro Bartoccioni, il cardiochirurgo umbro che fu pioniere del bypass coronarico a cuore battente lasciando di stucco gli americani a Houston, ora nelle fasi terminali di un tumore allo stomaco. E il professor Lucio Gullo, grande esperto internazionale del pancreas come primario internista all’ospedale Sant'Orsola di Bologna, a quel tempo reduce da un tumore alla prostata.
L’inizio fu in una stanza.
Noi cinque a guardarci in faccia e loro semi sbalorditi da 'sto giornalista che gli parlava della «più grande rivoluzione nella storia della Sanità moderna, cioè il Servizio Sanitario riscritto dai medici ammalati».
Da lì a pochi mesi il petardo acceso in quella stanza si trasformò in un razzo, e poi in una supernova.
Il gruppo si quintuplicò, con l’adesione di altri eccezionali clinici seriamente ammalati.
La forza delle loro storie di medici-pazienti travolse ogni ostacolo per finire in un libro edito da Rizzoli BUR, Dall’altra parte, che farà undici ristampe e che offrirà un decalogo per una Medicina a misura di umani. Poi fummo immortalati in un documentario di RAI Educational presentato da Giovanni Minoli, ritrasmesso nove volte. E di seguito ci fu un tour nazionale per ospedali con platee da stadio, egualmente ripartite fra medici e studenti. E addirittura approdammo al ministero della Salute allora retto da Livia Turco, che ci nominò Commissione Consultiva Nazionale dei Clinici Ammalati per la Riforma della Sanità.
Ma già che sto correndo vi racconto anche l’epilogo, non felice, purtroppo, dopo eventi così straordinari.
Tutto si sfaldò a cominciare dalla caduta del Governo che ospitava il dicastero Turco con la conseguente scomparsa della nostra Commissione. Poi, ahimè, diversi clinici nel frattempo morirono proprio perché davvero le loro malattie non erano uno scherzo, e a quel punto, privati del fondamentale incarico esecutivo, non inclini a replicare cose già fatte in precedenza e fiaccati dalle perdite umane, la cosa si arenò.
Ma qualcuno non si è dimenticato, ed eccomi qui a rievocare quell’epopea con l’aiuto dell’unico membro sopravvissuto del gruppo fondatore, il professor Francesco Sartori.
Sapete, non tenterò di riassumere in poche righe un lavoro immenso, così profondamente "medico" proprio perché nato dalle viscere della sintesi fra scienza e sofferenza che solo quei grandi clinici poterono fare.
Chi vuole può comprare il libro o guardare il documentario della RAI.
Quello che voglio ricordare ora è altro.
Per esempio, gli sguardi totalmente rapiti delle centinaia di giovani studenti di Medicina, quando affollavano le sale per ascoltarci, non li dimenticherò mai. Erano esterrefatti, come davanti a una rivelazione che gli parlava del vero senso della loro scelta: l’umanità.
Oppure la forza con cui la nostra missione aveva impregnato i grandi clinici, come gli fosse scesa dal cielo l’opportunità di dare un senso alla catastrofe che aveva scardinato le loro vite di successi e prestigio, ma anche l’opportunità di vendicare le umiliazioni che avevano subito nell’istante in cui, di colpo, erano stati scaraventati dall’altra parte della barricata, fra i pazienti.
E qui vale la pena citare esempi, perché – moltiplicati alla decima potenza – sono ciò che tutti noi "malati" alla fine subiamo nei meandri sanitari nel momento peggiore della nostra vita, e non va affatto bene.
Uno dei membri aggiunti del gruppo era il notissimo (e compianto) neonatologo professor Carlo Flamigni e fu lui a raccontare in pubblico quando, in seguito all’emiparesi che lo colpì, si trovava in terapia intensiva e due infermiere lo stavano lavando.
Flamigni non era ancora cosciente di ciò che gli era appena accaduto e disse alle giovani: «Ma perché mi lavate solo la parte sinistra?». Al che una delle due sussurrò all’altra, senza neppure guardarlo, «Non sa che è paralizzato…», come si farebbe con un disabile mentale incapace di udire o capire.
Il professor Bartoccioni, cui avevano asportato quasi tutto lo stomaco, ricordava quando lo portarono, a digiuno, dalla sua stanza alla radiologia, che distava solo un centinaio di metri. L’attesa per l’esame fu di due ore, sdraiato fianco a fianco con altri malati. Alla fine era stremato e da medico sapeva che doveva mangiare qualcosa subito, eppure nessuno lo veniva a prendere. Chiese notizie dei portantini al personale, e come spesso accade la risposta fu tanto insensata quanto insensibile: «Lei deve aspettare, la vengono a prendere!», fine. «Ma sono cento metri a piedi, mi lasci andare, non ho più lo stomaco, sono a digiuno da ieri, non ce la faccio più!», protestò lui. L’infermiere, irritato, gli fece la ramanzina delle regole e «si metta calmo!». Bartoccioni se ne andò barcollante, seminudo, con quello che gli urlava dietro come fosse un ragazzetto sciocco che non ubbidiva.
O la dottoressa Sylvie Menard, dirigente della ricerca proprio all’Istituto dei Tumori di Milano, nostra associata, quando raccontò che il giorno della sua diagnosi di tumore spinale fatta da un collega in Istituto uscì dalla sala TAC e ci mise venti minuti a trovare il suo stesso studio in preda a uno shock temporo-spaziale. Ci disse: «Mi ricordai allora con vergogna di tutte le volte che un paziente mi aveva fermato a un metro dalla radiologia per chiedermi dove si trovasse la TAC, e io, con tono paternalistico, avevo risposto "Ma è lì davanti a lei, non vede?". Come qualcuno che il giorno della mia diagnosi mi avesse detto "Sylvie, ma che giri fai, il tuo studio è al secondo piano da 30 anni!"».
Da sani, questi possono apparire fatti minori, perché da sani non sappiamo nulla di cosa si prova nella malattia grave, come da liberi non è possibile immaginare cosa si prova rinchiusi nello scantinato dei rapitori.
E la frustrazione, la disperazione, lo smarrimento, i crolli di speranza, tutta questa pena d’incidenti grandi e piccoli in Sanità va poi moltiplicata esponenzialmente lungo mille e mille scalini che compongono le ventiquattro ore di chi è così ammalato, e non viene mai veramente capito, soprattutto dai medici. Perché non può essere capito, perché i medici sani non possono capire.
Fu indimenticabile il grande Gianni Bonadonna, quando a Milano davanti a una platea di eminenti oncologi, molti di loro suoi ex allievi, disse con voce spezzata: «Ho conosciuto la paura dei miei ammalati e ora so cosa provava Don Rodrigo… Il suo terrore di essere gettato ai monatti».
«Ho conosciuto la paura dei miei ammalati».
È tutto, TUTTO lì.
Solo in quel luogo un medico può davvero capire la malattia grave e dirci il come, il quanto, il cosa e il dove di una Sanità davvero a misura di umani.
Paolo Barnard
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