Che arte sublime, la semeiotica medica!
L'etimologia svela l'arcano: la parola deriva dal termine greco semèion che significa segno.
Da non confondere con la semiotica, la scienza generale dei segni nella filosofia del linguaggio, che è la disciplina insegnata e resa celebre da Umberto Eco all'Università di Bologna. Ma questa è un'altra storia...
La semeiotica è in pratica la capacità dei medici di rilevare i dati relativi a una patologia con l’ausilio dei soli sensi. Tutti insieme sapientemente orchestrati per stanare il colpevole del danno corporeo sondando gli indizi che emergono dall’organismo malato.
Il guaio autentico è che molti camici bianchi, purtroppo, non visitano più e si limitano a sfornare diagnosi semplicemente esaminando i responsi delle apparecchiature diagnostiche.
Quante volte ci capita di sentire: «Quel dottore nemmeno mi ha sfiorato!».
Ecco che cosa sta mancando alla medicina ipertecnologica di oggi: il contatto. Ossia il con (la comunione, la condivisione) e il tatto (il toccare fisico ma, verrebbe dire, anche il comportamento improntato a discrezione e delicatezza).
Vogliamo il gesto umanissimo racchiuso nel significato stesso della parola clinica, che affonda le radici nel sostantivo greco kline, letto. E dunque il clinico è il medico che insegna ai suoi allievi l'arte di curare il malato a letto. Chinandosi, piegandosi empaticamente verso di lui (anche questo significa il verbo klino).
Insomma, bisognerebbe riconquistare, nella valutazione di un paziente, il grande potere dei 5 sensi: la vista (con l’ispezione si collezionano tutte le informazioni ottenibili “a colpo d’occhio”), il tatto, il fiuto (le malattie possono essere fonti di odori particolari), l’udito (con quel mitico invito: “Dica 33!”) e, in uno slancio di zelo, anche il gusto.
Il gusto, sì.
Proprio come sosteneva quel famoso professore...
Concionava, nell’aula universitaria gremita di studenti, sull’importanza di analizzare il paziente nel modo più approfondito possibile in virtù della potente semeiotica medica.
Così a un certo punto estrasse da un armadietto un portaprovette con cinque piccoli recipienti cilindrici, disposti in fila indiana.
E ricolmi di urina.
Ostentando sicurezza, infilò l'indice nel liquido del primo contenitore di vetro, nel mutismo sbigottito della platea. Quindi, con l’eleganza di un sommelier, se lo portò alla bocca.
Degustò con lentezza, tra i gemiti di ripugnanza del pubblico, e…
«Diabete!».
Intinse di nuovo il polpastrello nella provetta accanto e… «Eccesso di globuli bianchi».
A ogni assaggio, una diagnosi.
«Qui presenza di eritrociti e poi… uhm, già-già-già... quantità elevate di proteine, e infine direiiiii… cristalli di acido urico!».
Il prof. a questo punto rivolse un’occhiata panoramica agli atterriti allievi e poi: «Tu, tu e tu».
I tre avanzarono recalcitranti, costretti a cimentarsi nel test. Che si rivelò drammatico e penoso: dita tremolanti, facce accartocciate, budella in rivolta, lamenti strozzati.
Il terzetto tornò a sedersi sugli scranni, visibilmente provato, tra le pacche di conforto degli amici attorno.
«L’osservazione», intervenne allora il professore con tono placido, «è un fondamento del processo diagnostico. Ma voi, cari miei, non vi siete nemmeno accorti che nelle provette ho intinto il dito indice ma in bocca ho infilato il medio!».
Comments