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Immagine del redattoreEdoardo Rosati

L'Isola dei Sorrisi

Aggiornamento: 29 nov

Alessandro Baricco, con quella sua maestria nel tessere parole, ha saputo immortalare un attimo di straordinaria umanità. In un day hospital, tra le mura di un Centro antitumori, l'occhio dello scrittore ha colto un'armonia fragile, un'isola di sorrisi vitali che sfidano la sofferenza: due giovani ragazzi, segnati dalla malattia, che trovano la forza di condividere momenti di leggerezza. Un'immagine che ci coinvolge nel profondo e ci ricorda che anche di fronte alla più grande avversità, lo spirito umano può risplendere. Con sensibilità unica, Baricco ha dato voce a un'emozione complessa, un misto di vulnerabilità e forza. Ci ha mostrato che la malattia non può spegnere la gioia di vivere, che l'amicizia e la complicità possono essere potenti antidoti al disagio. Le sue parole, raggi solari in una giornata grigia, invitano a riflettere sul valore della vita. Sulla bellezza dei piccoli gesti. E sul potere tracimante della resilienza.


Me ne stavo al day hospital di ematologia in una di quelle mattinate che iniziavano prestissimo e alle volte non finivano più, e diventavano pomeriggio e perfino sera, che c’eri solo tu e un’infermiera. Adesso, a ripensarci, mi sembra una vita fa, ma no, era questa vita, quando ancora non stava in piedi da sola. Che tempi. Ma insomma, ci sono diverse stanze, lì, ognuna ha un suo colore, e il colore le dà il nome. Stanza gialla. Stanza azzurra. Una volta finisci lì, una volta finisci là. Non c’è un criterio, o se c’è non l’ho mai capito. Per cui i compagni di stanza, di volta in volta, cambiano – ovvio – e nel tempo finisci di incrociare casi di tutti i tipi. Non è che si familiarizzi molto, si è spesso così deboli, o evanescenti, basti giusto a te stesso, non è che ne hai anche per gli altri. Oppure alcune volte si inizia a parlare, e prendi coraggio: a me sembra di aver conosciuto solo gente che era più forte di me, più paziente, più coraggiosa.

Una lezione continua.

Così spesso dormivo.


E insomma, una volta finisco in una camera, mi sembra verde, e su due poltrone (non sono poltrone Frau, sono poltrone da day hospital, tutt’altro genere), mi trovo due che stavano chiacchierando, e la verità è che erano due ventenni. O giù di lì. Un lui e una lei. 


Io mi sistemo nel mio letto, faccio le solite cose, loro salutano, poi tornano a parlare. Io di ventenni non ne avevo incontrati, prima, magari era un caso, ma non ne avevo incontrati, né in corsia, né al day hospital. Una, una volta, che piangeva in un modo capriccioso, non mi era piaciuta un granché, l’avevo dimenticata.

Quei due, così, erano qualcosa che in fondo non avevo mai visto. Parlavano sottovoce con un’intesa che li isolava da tutto il resto. Stavano in una loro bolla di complicità. Addosso avevano tutti quei segni che caratterizzano noi del day hospital reparto ematologia, non sto neanche a elencarli, non li ricordo con piacere. Ma insomma, si stava tutti collegati a un’asta da cui colavano cose, e quelle cose ti tenevano in vita.


I due, però, non sembrava fossero collegati a niente, a parte se stessi: stavano nella loro bolla, l’ho detto. Non è che volevo origliare, però insomma in quelle stanze non puoi fare a meno di sentire. Be’, parlavano di cose normali. Della vita. Dei locali dove bere lo spritz, di sport. Bisogna tener conto che noi dei day hospital se parliamo tra noi parliamo nel 90% dei casi delle cure che facciamo o di cibo. Più del cibo che delle cure. È un riflesso animale, il cibo è vita, parliamo del cibo. Ricordiamo colossali mangiate o annunciamo quel che ci faremo la sera, tornati finalmente a casa. Con tutto che per lo più siamo in dieta o cose del genere. Ma non importa. Parlare di cibo ti fa sentire vivo.

Quei due, invece, non parlavano né di cibo né di cure, parlavano e basta.

Ogni tanto ridevano.

Avevano un bel modo.

Ovviamente ti veniva subito in mente che stessero insieme, in quel senso là. Ma invece, man mano che passava la mattinata, veniva fuori che no, avevano entrambi un fidanzato, una fidanzata, fuori da lì. O qualcosa del genere. Quindi quel loro stare uno di fianco all’altra, in quel bellissimo modo, mite, dolce, affettuoso, era qualcosa di definitivamente letterario, ti faceva sognare.


Io me li ricordo bellissimi – probabilmente non lo erano, non è molto facile esserlo se sei in un day hospital di ematologia – e tuttavia erano bellissimi e basta, tra i più bei ventenni che io abbia mai visto in vita mia. Quel che ricordo distintamente è che loro non c’entravano con tutti noi, noi eravamo al nostro posto, in fondo, il nostro era un modo di avere i nostri anni, ci sono modi migliori ma tant’è, se ti è toccato, quello devi fare. Ma con loro era diverso, loro non c’entravano, ecco. Noi eravamo malati, ed era una cosa che facevamo in bianco e nero, con un po’ di grigio qua e là: eravamo un documentario commovente. Loro no. Loro erano a colori. E stavano in una fiction, in una mossa irregolare della fantasia, in una commedia di cui qualcuno aveva perso il controllo.

Ecco, loro erano fotogrammi di un bel film finiti non si sa perché in un documentario ungherese anni Sessanta. 


Adesso, che ho letto il libro che voi state per leggere, so che in effetti le cose stanno proprio così. Loro sono in un altro film. Esistono i bambini malati di tumore, esistono gli adulti malati di tumore, e poi esistono loro – e si meritano un film tutto per loro. Che dei medici si siano messi a studiare che tipo, esattamente, di film mi sembra una cosa nobilissima. Non conto di avere mai più vent’anni, ma comunque la cosa mi rassicura. C’è tutto un mare di modi di fare, ho imparato leggendo, che la medicina non ha ancora preparato per loro – si usa quel che c’è, passando dall’accosto iper-accurato che si ha con i bambini, a quello super collaudato che si ha con gli adulti. Ma la terra di mezzo è terra strana, in cui non sempre si sa camminare. Con umiltà, allora, si cerca la traiettoria giusta, il ritmo, la leggerezza dell’andare. È un lavoro di pazienza, intuisco, e di visione coraggiosa.

Sarebbe bello se questo libro potesse accompagnare molti medici a posare i loro passi su quella terra di mezzo con saggezza, fantasia, e buona volontà.

Lo auguro con tutto il cuore ai medici che lo leggeranno.

Lo auguro con tutto il cuore a quei due, bellissimi, che nella loro bolla, non lo leggeranno.


(Il testo è la Prefazione del libro Nella terra di mezzo – Storie di giovani malati di tumore, edito da PIEMME e scritto da Andrea Ferrari, oncologo pediatra all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e professore associato di Oncologia medica presso l’ateneo ambrosiano, e Fedro Peccatori, direttore dell’Unità di Fertilità e Procreazione in Oncologia all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano.)



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