Voce del verbo "mostrificare"
- Riccardo Renzi
- 11 feb
- Tempo di lettura: 6 min
MOSTRIFICARE. Significa, secondo la Treccani, trasformare in mostro, o anche considerare un mostro. Ci sono, quindi, i mostri veri e propri, diventati tali attraverso diversi processi (fisici o psichici), e quelli che vengono indicati come mostri, a torto o a ragione, diciamo così i “mostri mediatici”. E devo notare che il mostro moderno, in entrambe le accezioni, nasce dallo stesso romanzo, Frankenstein (1818), scritto dalla diciannovenne Mary Shelley: storia di un essere francamente mostruoso, nato dalla scienza, che viene poi perseguitato dall’intero villaggio (globale).
Io, naturalmente, non oserei mai sul blog di Edoardo Rosati, che è uno dei massimi esperti italiani di mostri, diavoli e affini, dissertare dei mostri letterari e cinematografici.
Quelli che mi interessano, e di cui mi sento di dire qualcosa, sono i mostri mediatici, perché è in relazione a questi che oggi si usa e abusa del termine “mostrificazione”, tanto brutto ma così di moda (on fire, scriverebbero i più giovani) da trovare ogni giorno nuove applicazioni.
Si mostrificano, o si accusa di mostrificare, intere etnie (arabi ed ebrei, russi e americani, bianchi e neri), e naturalmente i migranti, di qualsiasi provenienza; si mostrificano pezzi di società, i giudici, i medici, gli avvocati e naturalmente i giornalisti; le banche e le farmaceutiche, i burocrati europei e le multinazionali, i mass media e i social, Internet, le auto elettriche e le energie rinnovabili, gli adolescenti e i vecchi, i diversi sessi; e ovviamente il governo e l’opposizione.
La recente campagna elettorale americana è stata una gara a chi mostrificava di più l’avversario. E anche in Italia non si scherza. Non si tratta, sia chiaro, di fenomeni nuovi: semplicemente abbiamo una nuova parola per definire l’odio collettivo.
Come sempre, poi, vengono mostrificati singoli individui, con nome e cognome, ma con molta più facilità di prima, grazie all’articolazione-disgregazione della nuova comunicazione capillare. È questo un processo che mi ha sempre indignato, anche con i vecchi metodi. Non tanto (o non solo) per sensibilità civile, ma perché mi è capitato di conoscere, frequentare e apprezzare (come un piccolo Truman Capote) il più famoso mostro della mia epoca giovanile, che si chiamava Pietro Valpreda, il ballerino zoppo accusato di aver messo la bomba di piazza Fontana. La sera dopo l’attentato, il Corriere d’Informazione (che era l’edizione pomeridiana del Corriere della Sera) uscì con il titolo cubitale «È lui!», accanto alla sua foto. Quel che si dice sbattere il mostro in prima pagina. Cinque anni dopo mi capitò per caso di assistere a un momento storico: vidi il collega, che era stato caporedattore al Corriere d’Informazione e autore di quel titolo, inginocchiarsi davanti a lui e chiedergli di perdonarlo.
Tra parentesi, noto che oggi, mi sembra, un fatto del genere, anche una semplice scusa, capiti molto di rado. Allora sentii il “mostro" dire: «Te se propri un ciula, tiret su...».
Professionalmente, però, ho avuto a che fare soprattutto con altri mostri, tra i più brutti e temuti, perché nascono da una paura ancestrale: le malattie e le pandemie.
Mi sono chiesto, allora, se e quando io (con i miei colleghi che scrivono di medicina e salute) abbia avuto la tendenza a mostrificare le malattie di cui scrivevamo. O piuttosto a sottovalutarle, a banalizzarle. È una domanda che può sembrare retorica, ma che forse può stimolare una riflessione utile per chi fa il nostro lavoro. Io provo a rispondere onestamente, in prima persona, perché non voglio coinvolgere altri in eventuali responsabilità.
Il più classico dei mostri di cui ho scritto spesso è il cancro. Ma in questo sono stato fortunato, perché ho cominciato a farlo nel momento giusto. Quando, cioè, finalmente cominciammo a chiamarlo per nome, evitando tutti quei giri di parole che non facevano che renderlo più mostruoso della realtà, tipo “brutto male” o “male incurabile”.
Questo fu possibile grazie alle pressioni dei medici con cui eravamo in contatto, primo fra tutti Umberto Veronesi, e soprattutto grazie al fatto che molti tipi di quel male cominciavano a essere curabili. Credo che fu il mio giornale, il Corriere Salute, il primo medium divulgativo a usare la parola «cancro» e «tumori» anche nei titoli e a ottenere così un effetto demostrificante. E credo che su questa esperienza imparammo a trattare nello stesso modo tutte le malattie, lungi dal banalizzarle, ma mostrando le possibilità della scienza medica, senza nascondere, ma senza spaventare. E ritengo anche che questo metodo, di dare un nome alle cose o alle persone che ci fanno paura, sia il più efficace per disinnescare l'ansia che suscitano in noi.
Diversa è però la storia delle epidemie, che poi abbiamo imparato essere anche pandemie e che attivano dinamiche molto più complesse, dal punto di vista mediatico.
Qui tutto partì dall’enorme sottovalutazione dell’AIDS, derivante dal fatto di essere nata e conosciuta nel 1981 come “cancro dei gay” (secondo i titoli di alcuni giornali), tanto che fu etichettata GRID, che stava per Gay-Related Immune Deficiency. Un abbaglio grave e pericolosissimo. Anche in questo fui fortunato: quando cominciai a occuparmene, alla fine del decennio, risultava già chiaro che la trasmissione del virus non dipendeva dalle preferenze sessuali. Ma intanto erano stati creati i mostri-untori, che ritroviamo in ogni epidemia della storia, e che in questo caso erano i gay.
Con l’aiuto del compianto professor Fernando Aiuti, non partecipai a questa caccia alle streghe e quindi non mi sento responsabile di quella mostrificazione. Quello di cui mi sento in colpa non è una visione omofoba, ma uno sguardo stupidamente eurocentrico. Io, e quasi tutto l’Occidente, non “vedemmo” o facemmo finta di non vedere l’Africa, dove peraltro il virus era nato, dove l’HIV faceva strage, e non c’era alcun dubbio che la trasmissione fosse soprattutto eterosessuale. Me ne resi ben conto anni dopo durante un viaggio in Botswana, un Paese dove nell’ultimo decennio del secolo l’età media era passata da 64 a 35 anni.
In seguito all’esperienza dell’AIDS diventammo tutti più cauti e attenti alle possibili origini di nuove pandemie. E qui credo di aver esagerato (non da solo) almeno in un paio di occasioni e di aver contribuito a creare qualche mostro di troppo. Non è certo il caso di Ebola, fonte di terrificanti articoli, film e racconti, che era ed è un vero mostro, con l’unico difetto di essere troppo cattivo, di uccidere troppo rapidamente per trasmissione diretta e quindi di essere arginabile. Piuttosto mi sento colpevole di avere contribuito a mostrificare due animali tra i più miti e familiari: la mucca e il pollo.
La “Mucca Pazza” era un mostro che aveva un nome suggestivo e una storia affascinante di antropofagia e che oltretutto era causata da una bestia di tipo nuovo, il prione, particolarmente interessante dal punto di vista biologico. Il timore che l’encefalopatia spongiforme bovina (questo è il nome serio) potesse colpire anche l’uomo ebbe come conseguenza la scomparsa dalle nostre tavole, per un breve periodo all’inizio del nuovo secolo, dell’osso buco e della bistecca alla fiorentina. E si discute ancora se ci sia stata qualche vittima tra gli umani. E devo quindi ammettere di avere, in qualche caso, calcato un po’ la penna.
Poi ci fu il caso dell’Aviaria (siamo nel 2005), per la quale fui accusato direttamente di mostrificazione nel corso di un convegno al quale partecipavo come rappresentante dei mass media. Provai a difendermi spiegando che tutti gli esperti consultati avessero sostenuto che era molto probabile (e pericoloso) il salto di specie dell’influenza degli uccelli, che morivano a stormi, ai cugini mammiferi. Ricordo anche che gli specialisti avevano pronosticato che il passaggio sarebbe avvenuto probabilmente nel mondo contadino cinese.
Per la prima volta sentii l’accusa di “epidemia mediatica”, responsabile soprattutto per aver danneggiato il mercato avicolo. Cercai di spiegare che era stato un rappresentante dell’OMS, l’Organizzazione mondiale della Sanità, il primo a suggerire che la carne di pollo potesse trasmettere l’infezione. E che anche il ministero della Salute ci aveva messo del suo, con un comunicato che dichiarava come il pollame fosse un alimento sicuro, ma che fosse necessario vaccinarsi contro l’influenza: provocando, con tale ambiguità, un’immediata fuga da cosce e petti di pollo.
Aveva anche ragione chi sottolineò che noi giornalisti italiani avevamo sbagliato traducendo in “influenza del pollo” quella che in inglese era semplicemente bird flou: vagli a spiegare che per motivi “gergali” non si poteva mettere in un titolo italiano... “l’influenza dell’uccello”!
Va bene, quindi, mi prendo questa colpa.
Ma devo sommessamente notare che ho fatto meno danni dell’epidemia di Aviaria del 2022, quando solo in Italia sono stati abbattuti 14 milioni di polli e che, proprio in questi giorni, si parla ancora di un possibile salto di specie del virus H5N1, cioè dell’influenza aviaria.
Accuse di allarmismo erano arrivate anche tre anni prima, nel 2003, per una breve ma intensa epidemia di un virus che si chiamava SARS-CoV-1, scoperta dall’italiano Carlo Urbani, che era poi morto per il contagio. Era un gran mostriciattolo, perché era un virus respiratorio, quindi facilmente contagioso, che in pochi mesi fece 800 morti su 8.000 casi riconosciuti, una letalità del 10%. Gli infettivologi erano spaventati, noi giornalisti, dopo aver sentito gli infettivologi, anche, ma non ci credeva nessuno. E poiché i focolai si estinsero rapidamente, facemmo ancora la figura degli incendiari.
Nel 2020 era già in pensione, quando è arrivata una sua variante, il SARS-CoV-2, meglio conosciuto come COVID-19. In un primo momento ho cinicamente pensato di essermi perso il più bello, dal punto di vista professionale. Poi, in realtà, ho concluso di essere stato ancora fortunato, per essere rimasto fuori dalla mischia, chiuso in casa come gli altri. E non mi sarei nemmeno goduto la rivalsa, dopo le nuove accuse di epidemia o terrorismo “mediatico” e di allarmismo ingiustificato al soldo delle farmaceutiche (di mostrificazione, insomma) rivolte ai miei colleghi, di poter dire: «Ecco, il MOSTRO è arrivato!».

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