Nel vasto cosmo della ricerca scientifica, l’accoglienza delle novità è spesso un terreno minato. Sebbene la missione intrinseca della scienza sia quella di esplorare l’ignoto, il cammino verso l’adozione definitiva delle scoperte rivoluzionarie è disseminato di ostacoli. Resistenze. Pregiudizi sistemici.
Emblematica è la vicenda del professor Stanley Prusiner.
Un tipo originale. Anzi, un eretico. Perché soltanto un... “miscredente” avrebbe potuto avanzare teorie così assurde sull’identità del colpevole delle encefalopatie spongiformi.
Nel 1972 lavorava come neurologo all’Università della California - San Francisco.
C’era, tra i malati da lui in cura, un paziente in preda a una sindrome clinica eclatante.
Il poveretto appariva spento, apatico, disorientato. La sua mente annegata nella confusione. Non si sentiva più padrone dei propri movimenti, le parole annaspavano, la vista era incerta. Concentrarsi richiedeva uno sforzo immenso e la memoria andava spegnendosi.
Le masse muscolari erano animate da raffiche di sussulti bruschi, incontrollabili, che si manifestavano al minimo stimolo, e che affioravano anche così, spontaneamente.
In poche settimane questo corteo di alterazioni sfociò in uno stato stuporoso: l’uomo diventò incapace di parlare e di deglutire, giaceva inerte, scosso soltanto da repentini spasmi muscolari agli arti e al volto...
Prusiner, senz'armi, lo vide progressivamente consumarsi: quel malato morì così, nel blackout ovattato di una travolgente demenza.
Il killer si chiamava malattia di Creutzfeldt-Jakob.
Non esiste terapia e l’esito è invariabilmente fatale.
La patologia prende a morsi il cervello e lo riduce a un colabrodo. A una massa di tessuto non più solida e compatta, ma punteggiata di porosità. A una spugna, insomma (da qui l’attributo affibbiato a questa encefalopatia: «spongiforme»).
Il punto è che, all’epoca, le conoscenze di Prusiner riguardo al morbo in cui si era imbattuto si limitavano davvero a una manciata di nozioni. E allora il medico, desideroso di saperne di più, si avventurò di persona negli anfratti di quell’oscura patologia, risoluto a svelare l’identità della Cosa che aveva divorato l’encefalo del suo paziente.
Il complicato cammino lo condusse a confrontarsi con una verità sconvolgente. Roba da far tremare le colonne della biologia: a scombussolare le mirabili architetture dei neuroni cerebrali non era un fantomatico virus ma un agente insolito, che vantava comunque il potere di infettare l’uomo (e pure l’animale) alla stessa stregua di un germe trasmissibile. Però non lo era affatto, perché non disponeva di acidi nucleici, ossia dell’hardware biochimico che muove universalmente gli organismi viventi.
Lo chiamò prione, un acronimo che corrisponde all'espressione «particella infettante di natura proteica» (proteinaceous infectious particle). Già, perché le analisi dimostrarono che il patogeno in questione risultava costituito da proteine sui generis, tenaci e caparbie, resistenti alle sostanze tradizionalmente in grado di digerire le strutture proteiche.
Prusiner formulò allora un’ipotesi sconcertante, temeraria, provocatoria: la proteina prionica mostra due anime, l’una buona, inoffensiva, fisiologicamente fabbricata dal nostro organismo, e l’altra malvagia, anarchica, in grado di mutare la controparte sana e di innescare la malattia. Dottor Jekyll e Mister Hyde, insomma.
La patologia dipenderebbe dal fatto, in buona sostanza, che il prione "cattivo", a contatto con le corrispondenti molecole regolari, finisce per corrompere in qualche modo la loro conformazione. La sua azione nefasta si traduce nella trasformazione delle proteine sane in varianti distorte, che a loro volta guastano altri esemplari normali, innescando una perversa reazione a catena. E così che i prioni si moltiplicano e si ammucchiano. Fino a crivellare la massa cerebrale. Le malattie da prioni possono manifestarsi come disturbi genetici, infettivi o sporadici, e comportano tutti lo stravolgimento di un'ordinaria proteina cellulare.
Apriti cielo! Il viaggio di Prusiner verso questa scoperta epocale fu segnato dalle indignate reazioni scettiche da parte della comunità scientifica. Il neurologo californiano s'incaponì nella sua teoria, sfidando il pensiero consolidato e inaugurando un inedito capitolo della patologia umana, che svelava i reconditi meccanismi non soltanto della malattia di Creutzfeldt-Jakob ma pure del famigerato “morbo della mucca pazza”.
La scoperta di Prusiner ha in pratica riscritto le leggi delle neurodegenerazioni, e gettato nuova luce sulla caleidoscopica complessità delle proteine e sulla loro influenza cruciale nella salute e nella genesi delle malattie.
Un percorso coronato, a dispetto delle mille riluttanze culturali, dall’assegnazione del Premio Nobel per la Medicina nel 1997.
Un happy end, diciamo così, che però stimola qualche riflessione...
Le teorie consolidate, infatti, rappresentano una sorta di comfort zone per la comunità degli scienziati. E quando una nuova idea minaccia di sovvertire un paradigma radicato, è come se le fondamenta stesse della conoscenza venissero scosse. La teoria del geocentrismo, per esempio (leggi: la Terra al centro del Sistema Solare), ha dominato il pensiero scientifico per secoli prima che Copernico e Galileo proponessero una concezione eliocentrica, mettendo in discussione la visione tradizionale dell’universo.
Le istituzioni accademiche, poi, pur essendo baluardi indiscussi della ricerca, possono diventare anche luoghi in cui l’inerzia intellettuale impedisce l’adozione di nuovi modelli e ostacolare l’apertura mentale necessaria per abbracciare le scoperte rivoluzionarie.
Non è finita: gli scienziati spesso investono anni di lavoro e risorse in un determinato ambito di ricerca. L’accettare un'inedita teoria potrebbe compromettere il valore dell’impegno trascorso o, in casi estremi, mettere a repentaglio i futuri finanziamenti. Ovvero: la riluttanza può scaturire non solo da una mancanza di convinzione, ma anche da una sorta di... autopreservazione professionale.
In definitiva, la scienza è la forza motrice del progresso, ma il processo che conduce all'accettazione di una novità, anche se sostenuta da una robusta base di evidenze, si rivela a volte (spesso) un intricato balletto tra tradizione e innovazione.
Gli scienziati, come tutte le persone, sono teatro di emozioni, pregiudizi e vincoli cognitivi: la resistenza mentale è figlia dell’attaccamento istintivo alle teorie accreditate e di una diffidenza naturale verso le visioni che sembrano sovvertire l’ordine fissato.
Stanley Prusiner ha allora incarnato l'audacia.
È l'esempio lampante di come il coraggio e la determinazione possano spingere oltre i confini del sapere scientifico. Perché questi pionieri non si accontentano del già noto, ma abbracciano il rischio e le intuizioni ardite (sempre corroborate, va da sé, dal metodo sperimentale). Dimostrando, in fin dei conti, che la parola eresia ha un'etimologia assai nobile: dal termine greco aìresis. Che in pratica significa: fare la propria scelta.
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