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Immagine del redattoreRiccardo Renzi

Dal mal di testa al... mal di testo

Aggiornamento: 19 nov 2021

La prima volta fu un problema di cefalea.


Era il 1990 ed era appena nato il Corriere Salute, il primo (in Europa) inserto di quotidiano interamente dedicato alla comunicazione medico-scientifica.


Ci toccò litigare per un paio di giorni con un professore, eminente neurologo, che ci aveva eccezionalmente concesso un’intervista sul tema, per l’appunto, delle cefalee. Il nodo cruciale era proprio quello: noi volevamo scrivere “mal di testa”, ma lui si rifiutava perché il termine corretto è “cefalea”. «Non siamo mica al cabaret!», ci apostrofò.


A noi, francamente, “cefalea” non piaceva perché temevamo fosse un vocabolo che evocasse una portata di pesce e ci sembrava che il più popolare “mal di testa” non fosse poi così scorretto e non tradisse affatto il contenuto.

Alla fine, dopo lunghe telefonate e l’intervento del nostro direttore, Luigi Bazzoli, trovammo il classico accordo: liberi di usare “mal di testa”, ma nel parlato del professore soltanto “cefalea”. Ci venne allora in mente la geniale battuta di Prima pagina, lo strepitoso film di Billy Wilder, in cui il corrotto sceriffo accusa il giornalista di scrivere sempre male di lui. «Ma come», replica Jack Lemmon, «io ti definisco sempre come l’onesto sceriffo!». «Sì», risponde l’uomo della legge, «ma scrivi sempre onesto tra virgolette!».


Da allora nel gergo di redazione, questa citazione entrò nell’uso comune: «Mi raccomando», ci dicevamo, «scrivi onesto», mimando il segno delle virgolette.


Un paio di mesi dopo altra intervista allo stesso neurologo, alla fine molto soddisfatto del primo articolo (anche perché aveva visto incrementare non poco il flusso dei clienti nel proprio studio!).


Tema: l’emicrania. Riscriviamo mal di testa? «Eh no!», esclamò il professore. «Stavolta proprio non transigo».

Già, perché l’emicrania è soltanto un tipo di mal di testa, cioè di cefalea, «e pertanto», sentenziò lo specialista, «bisogna categoricamente usare il termine specifico». Dovemmo ammettere che aveva ragione lui: vada per “emicrania”, anche perché era un vocabolo piuttosto nazional-popolare, assai più di cefalea.


Ma ci ponemmo il problema opposto: forse era meglio spiegare, a questo punto, che esistono diversi tipi di “mal di testa”? Per forza. Si decise allora di accompagnare l’articolo con un “box”, un riquadro riassuntivo (oggi si chiama infografica) con l’elenco e le caratteristiche dei diversi tipi di cefalea, con tanto di illustrazioni schematiche che indicavano le aree dolenti della testa nei diversi casi.


Titolo pane al pane: Tutti i tipi di mal di testa. Per farsi capire serve un po’ di umiltà.


Sono fermamente convinto che quella volta la comunicazione medico-scientifica fece un paio di passi avanti piuttosto importanti.

Ci chiarì nella pratica che, quando si parla di salute, le parole vanno maneggiate con cura.

Che è necessaria la precisione anche nello sforzo divulgativo perché le parole “pesano”. Ma capimmo altresì che il problema non è semplicemente il lessico. In fondo, i termini “tecnici” che riguardano l’ambito della nostra salute possono essere ogni volta facilmente tradotti e spiegati – se si ha la premura di farlo – sempre restando ancorati a un certo rigore scientifico.


Quel che conta di più è come, dove e quando le parole vengono usate.


Perché poi scoprimmo, tra errori e discussioni, parecchi problemi. Non scrivemmo allora che un mal di testa può anche essere il sintomo di un tumore o di un’emorragia cerebrale e che, quindi, prima di parlare di “cefalea”, occorre, come dicono di solito i camici bianchi, «escludere altre cause con esami adeguati».

Fino a che punto, infatti, era giusto fornire un’informazione così esaustiva col rischio palese di spaventare i lettori? È giusto, se si parla di cancro e non di mal di testa, citare le statistiche di sopravvivenza, soprattutto quando le speranze sono esili, considerando che tra chi ci legge figurano gli stessi malati e i loro familiari?


E, al contrario, quando si può annunciare che “è in arrivo” un nuovo farmaco o che è stata messa a punto un’innovativa tecnica chirurgica, sapendo che ci vorrà molto tempo prima che le nuove “cure” entrino nella pratica clinica?

È corretto mettere in guardia i lettori sull’effetto “indesiderato” di un farmaco, che si verifica nello 0,1% dei casi? Si può davvero affermare che una “dieta corretta ed equilibrata” ti regala anni di vita in più?


Quali sono, insomma, i limiti dell’informazione sulla salute? Se ne discute ancora oggi.


Trent’anni fa i medici, salvo rarissime eccezioni, non volevano avere niente a che fare con i giornalisti ignoranti, arroccandosi nel proprio linguaggio che mescolava la tradizione accademica e quella burocratico-borbonica. E soprattutto non consideravano un proprio compito quello di spiegare alla gente i “misteri” della scienza medica.


Pochissimi sapevano scrivere, in senso divulgativo, pochissimi pensavano che la comunicazione medico-scientifica, termine pomposo che vuol dire semplicemente “spiegare alla gente come conservare la propria salute”, avesse un ruolo importante nella prevenzione.


Per questo ci fa una certa impressione vedere oggi gli scienziati comportarsi come rock star in tv e trasformarsi in opinion leader sul web. Sia chiaro, ci fa piacere che sia così, anche se qualche volta ci chiediamo che cosa ci stiamo a fare ormai noi giornalisti medico-scientifici… Ma questo è un dilemma di poco conto. Più interessante forse è vedere come e perché sia avvenuto questo capovolgimento.

Sul fatto che i giornalisti fossero ignoranti, sia chiaro, avevano ragione. I veri specialisti in materia si contavano sulle dita di una mano, in genere uno per ogni grande giornale e un paio alla RAI. Non esistevano riviste dedicate alla salute e anche sui maggiori quotidiani alla medicina veniva riservato uno spazio modesto (in genere nelle pagine della Scienza, mai in quelle della Cultura).

Il risultato era che quando la cronaca sconfinava in un tema medico, si scrivevano (e un po’ lo si fa ancora) un sacco di pericolose baggianate. Si confondevano bellamente i virus con i batteri e si annunciava trionfalmente un “trapianto di midollo spinale” (anziché osseo), sicuramente mortale per il donatore.


Oggi non è più così? Diciamo che il quadro generale è leggermente migliorato. Tante cose i giornalisti, i medici e gli scienziati hanno imparato. Siamo diventati tutti un po’ più bravi a informare il pubblico sui temi della salute.

E poi c’è Wikipedia… Ma abbiamo anche via via capito – noi che facciamo questo mestiere da parecchio tempo e tutti quelli che vivono oggi al tempo del Covid-19 – che un conto è informare e ben altra faccenda è comunicare.


Molti bravissimi medici sanno parlare ai propri pazienti in termini adeguati, si sono esercitati in questo nella pratica delle corsie e degli ambulatori. Ma parlare attraverso i mass media è davvero un’altra cosa.


E in questo forse abbiamo ancora tutti molto da imparare.


Riccardo Renzi (ex direttore di Corriere Salute)




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