Totò, il Principe Clown della risata italiana, è stato uno dei più grandi maestri ─ pardon, Maestri ─ dell’ironia. Inarrivabile la sua capacità di squadrare la realtà con occhio critico e di trasfigurarla in ilarità. E poteva risparmiare, tra i bersagli della sua dissacrante comicità, il mondo dei dottori e della medicina? Domanda retorica…
Antonio De Curtis si divertiva a torcere tanto il linguaggio comune quanto il gergo medicale, giocando con le frasi idiomatiche fino a deformarle e a renderle surreali al massimo livello. Ne Il medico dei pazzi (1954): «Ma che so’ scherzi che si fanno? Mettere la pulce nell’orecchio a un signore, galantuomo… Ma lo sa che è pericoloso? La pulce può forare il timpano, va alla tomba di Eustachio e va al cervello!».
I suoi lazzi, come bisturi affilati, smontavano la solennità della scienza medica. Nell’episodio Il vigile ignoto, segmento del film Le motorizzate (1963), il comico si spaccia per guardia addetta al traffico, e si giustifica in tribunale sentenziando: «Modestamente la circolazione ce l’ho nel sangue». O ancora (in Totò cerca pace, del 1954): al medico che lo rassicura sulla sua pressione arteriosa replica «Purché rimanga così… Ho paura se dovesse aumentare. Sa, di questi tempi: aumenta tutto!».
In un’epoca in cui, l’Italia del dopoguerra, il camice bianco era simbolo indiscusso di autorità, Totò osava burlarsi della classe medicale, esponendone le piccole manie e le grandi presunzioni. Uno dei suoi bersagli prediletti era il dottor saputello, pieno di sé, più interessato a sfoggiare il proprio enigmatico gergo specialistico. In Totò, Vittorio e la dottoressa (1957) l’artista napoletano si intrufola in una clinica privata, travestendosi da curante. Al suo fianco, il complice, che finge di essere in fin di vita, recitando la parte del paziente bisognoso di un intervento chirurgico urgente. E lui, rivolto al personale sanitario: «E adesso, ragazzi, via tutti! Gli ammalati devono stare tranquilli, specie gli appendicitici! Che l’appendicite, se si arrabbia,… lo so io, lo so!».
Nell’universo comico di Totò, la pomposità della medicina, con il suo fardello di pedanterie e cerimoniali, si dissolve in un fiume in piena di irresistibile sarcasmo. Come quando ─ sempre in Totò, Vittorio e la dottoressa ─ lui, scambiato ormai per un vero professionista, varca la soglia della sala operatoria con le braccia alzate in un gesto che ricorda quasi una benedizione. L’amico, disteso e terrorizzato sul letto operatorio, si agita e sbraita per l’operazione imminente. Ma Totò finto-chirurgo conserva l’aplomb e agli infermieri presenti comunica: «È il delirio! Parla! È la febbre». Il compagno: «Ma io non ho febbre!». «Ti verrà, ti verrà, caro, ti verrà». In seguito, Totò affila con vigore due coltellacci da macellaio, mentre un nugolo di gatti si raduna proprio sulla soglia della sala. Accorgendosi della loro presenza, si affaccia per un attimo, li osserva e poi: «Che c’è? Aspettate, aspettate… Ancora devo cominciare!». Le gag e gli sbertucciamenti dei soloni della chirurgia proseguono a raffica: «Facciamo un buco rotondo o un bel taglio cesareo come dico io?».
Ma l’umorismo di Totò non è un atto becero di irriverenza verso il mondo della sanità. Ridere dei tic dei dottori, delle loro fisime, significa abbattere il piedistallo di perfezione su cui a volte li poniamo, riconoscendo in loro la stessa umanità che ci appartiene.
Non si tratta, sia ben chiaro, di sminuire la professione: le macchiette di Totò, in definitiva, incarnano uno specchio sardonico che ci consente di osservare il rapporto medico-paziente da una prospettiva diversa, stimolando, con il sorriso sulle labbra, la riflessione. Dietro camici asettici e terminologie tecniche ─ questo è il messaggio ─ esistono persone, con fissazioni e imperfezioni. Proprio come noi.
La comicità di Totò si nutre di osservazioni acute e di una profonda comprensione della natura dell’uomo. Non deride mai per il mero gusto di farlo, ma sempre con l’intento di svelare le verità che si celano dietro la maschera del potere. E così, anche nel prendere in giro i dottori e nel mostrare come l’assurdo sia spesso parte integrante della realtà, questo immenso artista ci rammenta l’importanza di conservare uno spirito critico e di non perdere mai la capacità di sorridere delle umane debolezze.
L’amico Giuseppe Cozzolino, scrittore, saggista, docente di Storia e Critica del Cinema nonché curatore degli eventi live Un Totò al Giorno, celebra giustamente la potente performance del Principe della risata in Totò Diabolicus. «Firmata nel 1962 dal maestro Stefano “Steno” Vanzina, è una commedia nera che brilla per alcune interpretazioni memorabili di Totò, come quella di un sadico chirurgo, il professor Carlo di Torrealta, un vero e proprio Frankenstein dei nostri tempi che strapazza senza ritegno i suoi pazienti… che non hanno pazienza», un personaggio iconico che incarna, come dire, il dark side del potere medico. La battuta «Giovanotto! GIOVANOTTO! Io debbo lavorare! Io faccio il chirurgo, non il ciabattino, ha capito? E lei mi sta scocciando! Lei è un paziente che non ha pazienza! Che paziente è? Abbia pazienza!» ha lasciato un’impronta indelebile nel panorama della comicità italica.
Nel ruolo del professore folle, Totò, autentico orafo della risata, ha lasciato in eredità un tesoro di sketch indimenticabili, perle preziose scolpite dalla maestria di un genio che ha illuminato il palcoscenico e lo schermo con la sua ilarità senza tempo. Per finire, allora, riviviamo alcune di queste gemme incastonate in Totò Diabolicus.
Il chirurgo-Totò decide di palpare il polso del paziente, ma afferra distrattamente quella dell’assistente, il dottor Pandoro (l’attore Franco Giacobini).
«Eh! Eeehhh! Questo se ne va, eh? Non vorrei essere uccello di cattivo augurio, ma questo se ne va.»
E il paziente, disteso sul tavolo operatorio (quel meraviglioso artista napoletano che risponde al nome di Pietro De Vico): «Dove vado, professò?».
«“E dove vado...”. Lllà! Dove vuoi andare? Lllà! Dove andate tutti quanti! Oggi tocca a te, domani a lui, domani a questo… Una alla volta ve ne dovete andà…»
L’ammalato diventa sempre più oggetto della sdegnosa indifferenza di Carlo di Torrealta.
«E stia zitto! E stia tranquillo! Ha capito? Faccia il paziente e abbia pazienza! Ognuno deve fare il suo mestiere! Lei, da sano, che mestiere fa?»
Il malato, in preda all’ansia, balbetta: «Ma… macellaio!».
«E io… E io pure!». Rettificando subito dopo: «E io pure non sono un macellaio. Sono un chirurgo!»
Sotto la guida del dottor Pandoro, il nevrotico barone del bisturi si accinge a operare.
«Professore, più a destra.»
«Aspe’, fa verè.... sì, più a destra. Ancora?»
«Ancora un pochino.»
«Pochino?...»
«NOOO!!!»
«Porca miseria, guarda alle volte come succedono le disgrazie! Stavo tagliando il cuore. Eh-eh, eh-eh, stavamo a cavallo, poi!»
Carlo di Torrealta, dopo l'incisione chirurgica, con l'addome del paziente aperto, scruta il campo operatorio e commenta con ferocia:
«Io vedo un groviglio intestinale, una poltiglia proprio schifosa... Senta, non si offenda, ma lei fa schifo internamente, sa!».
«Aderenze…», chiosa l’assistente.
«E già, aderenze… Ade… A proposito di aderenze: lei al Ministero conosce qualcuno? Io c’ho una pratica fiscale da due anni…»
Il culmine giunge quando il luminare rivela nel malato una condizione inaspettata.
«Questo è un anormale. Eh, sì, perché dovrebbe avere 36 metri di budella. A occhio e croce questo ce n’ha 40. Io non sono un matematico, per carità… Piglia il metro! Voglio proprio vedere… E uno, e due, tre, quattro e cinque! Ecco il di più! Taglia questo!»
E il dottor Pandoro: «Professore, come al solito?».
«Come al solito!»
Il paziente sconcertato: «Come sarebbe?».
«No, no, io dopo operato, a casa, porto sempre un fagottino, capirà… perché c’ho un gatto soriano che è una meraviglia.»
«Professore, ma che dice? I-I-Il mio intestino a-al gatto?»
«Ma che è pazzo? Sto scherzando, no? Io do da mangiare questa schifezza al mio gatto? Il mio gatto è abituato con le mostacciole! Sa cosa le dico? Che io non la opero più! SI VESTA E SE NE VADA!»
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