In questi giorni più che mai complicati udiamo anche sparare parole di piombo su quel desiderio chiamato ricerca della maternità…
E allora vorrei raccontarvi la storia di due ragazze…
Nel cuore grande di una adolescente, parole come «ciclo mestruale», «sessualità», «maternità», sono universi tutti da scoprire. Realtà, sogni e speranze che disegnano e definiscono l’esistenza di una ragazza e della donna che sarà.
Immaginatevi adesso che qualcuno decida di cassare brutalmente quelle tre parole dal vocabolario di una giovane. Di sbriciolare ogni sua aspettativa. Come se tirasse un volgare calcio a un castello sulla sabbia issato con trepidazione per sfidare il mare della vita.
Quel qualcuno ha un nome, anzi, un cognome: sindrome di Rokitansky.
L’etichetta deriva dal barone Karl von Rokitansky, medico viennese vissuto nell’Ottocento. Fu lui a studiare una condizione congenita femminile: l’assenza dell’utero e dei due terzi superiori del canale vaginale.
Le cause? Mistero.
È un quadro anatomico silenzioso, che non causa sostanziali problemi di salute, sebbene possano essere presenti anomalie a carico di reni, cuore, udito e colonna vertebrale.
Le donne coinvolte, una ogni 4-5 mila, non accusano insomma disturbi: normali sono l’aspetto fisico e lo sviluppo dei genitali esterni, normali e funzionanti risultano le ovaie e normale è il corredo genetico. Poi, però, quando le stagioni della vita cominciano a scalpitare e a bussare alla porta di una ragazza, la sindrome ti pugnala alle spalle. Perché l’attesissima prima mestruazione non compare.
«A 14 anni mi sono sottoposta a una serie di visite, affrontando pure un intervento, ma senza capirne davvero il motivo. Solo a 18 ho compreso il mio serio problema», confessa Viola, 27 anni, animata dalla sconfinata passione per la musica e vulcanica organizzatrice di eventi per un locale milanese.
«Io l’ho scoperto a 16 anni. Ricordo, dopo la visita, nello spogliatoio, la voce sommessa del ginecologo che diceva a mia madre: “Mi spiace, signora... Sua figlia non potrà mai avere figli”», aggiunge la ventiduenne Giulia, che lavora come sarta prototipista nel mondo del beachwear.
Viola, Giulia.
Due ragazze radiose che una feroce onda anomala ha inghiottito in un gorgo di domande, disagi, tormenti, imbarazzi.
«Il mio cuore e la mia anima sono esplosi», ha scritto Viola in un toccante monologo teatrale. E Giulia: «E io che già da piccina sognavo la mia bella famiglia…».
La medicina come cerca di porre rimedio?
Alla diagnosi si arriva dopo vari accertamenti: visita ginecologica, esami del sangue, ecografia dell’addome, Risonanza Magnetica… Spesso, però, la risposta non è così immediata: una donna può peregrinare per anni da un medico all’altro, perché comunque parliamo di una condizione rara e ancora poco nota. Il percorso diagnostico-terapeutico, che si rivolge a una popolazione femminile che abbraccia tutte le età, è personalizzato. L’obiettivo: il completamento del canale vaginale, quando necessario, per consentire alle donne una nomale vita sessuale. Due sono le strade. C’è la chirurgia mini-invasiva, in laparoscopia (cioè “senza tagli”). La sua efficacia è ben consolidata e i risultati dal punto di vista anatomico e funzionale sono sorprendenti. Esiste pure un’alternativa non chirurgica altrettanto efficace: l’applicazione di un tutore vaginale per pochi minuti al giorno per un lasso di tempo variabile. Per la cronaca, il team della dottoressa Cinzia Marchese del Policlinico Umberto I di Roma ha anche sviluppato una procedura sperimentale, per produrre lembi di mucosa vaginale autologa, ottenuta con le cellule staminali della stessa paziente.
Ma la Rokitansky è un sisma che scuote la psiche.
«Ti senti diversa, visto che non hai le mestruazioni come tutte le nostre amiche», dicono Giulia e Viola, «e al dolore sommi dolore», aggiunge quest’ultima, «perché certe compagne, beatamente lontane dall’inferno che stai vivendo, si divertono pure a prenderti in giro».
Ecco perché, nell’iter terapeutico, è sempre imprescindibile il supporto psicologico, al fine di istituire momenti di incontro e confronto, individuali, di gruppo e familiari.
È in questa cornice che le nostre ragazze si sono conosciute.
«Ho sempre cercato di reagire con fermezza», interviene Giulia, «ma quando ho ascoltato, nelle nostre sedute, il racconto di Viola, mi sono sciolta in un pianto liberatorio».
Viola ha il tatuaggio del sole su un polpaccio, e quello della luna sull’altro. Una suggestiva sintesi dello stato d’animo delle nostre testimonial: la voglia pressante di uscire alla luce del giorno per denunciare e abbattere lati oscuri, reticenze e tabù.
Già, perché le ragazze “Roki” possono materializzare il sogno di diventare madri o con l’adozione (una scelta che spesso, purtroppo, si rivela una gimkana irta di tortuosi tragitti burocratici, legali ed economici) o, sì, ricorrendo alla maternità surrogata. Che però in Italia, per l’articolo 12 della Legge 40 del 2004, è un reato. E a quanto pare... «più grave della pedofilia» (e le dita di chi scrive faticano a digitare sulla tastiera queste tragiche parole).
Molti sono i Paesi nel mondo che hanno regolamentato la gestazione altruistica, per altri, e lo scenario è in continuo mutamento. «Ma parecchie sono pure le voci che descrivono questa procedura medica alla stregua di una pratica “contro natura”, alla luce di becere credenze e polverosi retaggi ideologici-culturali non suffragati da alcuna evidenza scientifica», dice l’amico Marcello Pili, medico specialista in Cardiologia e presidente dell’Associazione Italiana Genitori di Ragazze con Sindrome di Rokitansky. «Eppure parliamo di una strategia prevista e rimborsata in alcuni Servizi Sanitari Nazionali esteri e proposta ─ dai ginecologi dei Paesi ove è legale ─ come una via logica per diventare mamme alle donne affette da problemi di salute riproduttiva». E il trapianto dell’utero? «Una opzione ancora troppo sperimentale, con numeri veramente esigui di successo in termini di nascite».
Sulla bollente questione i sentimenti di Viola e Giulia viaggiano all’unisono.
«Per chi non ha questo problema è facile dire: “Be’, puoi adottare un bimbo!”», commenta la prima. E l’altra: «Alla nascita, una beffa del destino ha voluto rifiutarmi il diritto di procreare. Perché deve negarmelo anche il mio Paese?».
«La gestazione per altri, insomma, rappresenta in tante nazioni un’opzione medica, sicura ed efficace», continua Pili, «e consente alle coppie che non possono abbracciare la genitorialità ─ per colpa di quadri patologici severi e acclarati ─ di avere figli biologicamente propri, in un contesto giuridico, ecco il punto nodale della questione, correttamente normato e legale. E voglio anche aggiungere che nelle diverse Nazioni in cui tale pratica è lecita e attuata da decenni, la gestante solidale non è affatto ─ come vogliono i triti luoghi comuni ─ una donna disperata e culturalmente arretrata, ma una che ha legami parentali o amicali, e a volte anche assai stretti, con uno dei due genitori. In ogni caso, le diverse leggi interne che regolano la procedura prevedono che la gestante debba essere già madre di figli propri e in condizioni economiche tali da non configurare uno stato di necessità. In buona sostanza e in tutta franchezza, equiparare la GPA, ossia la gestazione per altri, a un crimine universale è autentica crudeltà e puro furore ideologico».
In definitiva: si dice “no”, NO al mercimonio, “all’utero in affitto” volgarmente detto, ma fortissimamente “sì”, SÌ alla gestazione etica e regolamentata, alla maternità solidale. Alla chance, per tutte le donne che non possono affrontare gravidanze per insormontabili problemi di salute, di chiedere aiuto a un’altra donna. Alleata e donatrice. Senza compenso alcuno ma solo in base a una serie di rigorose tutele.
La maternità surrogata non è una follia e neppure uno scandalo: è una terapia.
Del resto, se si fanno chiamare “le Roki” è perché sul ring della vita queste donne sono toste e combattive come pugili.
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